Si dice, ed è vero, che il livello di civiltà di una nazione si misura dalla condizione delle donne. Non solo, secondo diversi report internazionali – non ultimo lo studio USA Sex and World Peace, del 2012 – gli stati in cui la popolazione femminile sia poco rispettata, soggetta ad oppressioni e discriminazione, nonché violenze di vario tipo, sono anche quelli in cui è più probabile trovare condizioni di guerra o guerriglia (sia interna, magari tra etnie o fazioni religiose, che tra Paesi confinanti), che lacerano i territori. L’Africa, l’immenso e tormentato continente Nero, ne è una prova lampante.

Soprattutto le nazioni subsahariane, come Mali, Sudan, Congo, Somalia, Nigeria, eccetera, sono tormentate da continue guerre tra bande di criminali di ispirazione religiosa (Boko Haram tra tutti), militari corrotti, faccendieri e trafficanti di armi senza scrupoli, che vessano la popolazione e la affamano. Ma naturalmente la categoria debole sono sempre loro: le donne.

Le potenti, magiche, forti donne africane, le nostre progenitrici (come lo era Lucy, il primo ominide ritrovato). Donne delle tribù, o donne della grandi città, belle, con i loro meravigliosi abiti coloratissimi, i monili e le acconciature eleganti, donne che subiscono mutilazioni genitali terribili che minano la loro salute e le privano del diritto ad una sana sessualità.

Donne usate come fattrici, donne che nascono e vivono nelle bidonville e crescono con dignità i loro bambini, mentre i loro uomini si dileguano o annegano nell’alcool (è il triste caso delle periferie di molte città del Sudafrica). Donne che rischiano di morire ogni giorno per un parto mal assistito, per infezioni di vario tipo che potrebbero essere curate tranquillamente, per la piaga dell’AIDS o per le botte.

Donne che, come Meriam, sono costrette a partorire in catene in un carcere sudanese, per un’accusa che pensavamo archiviata da secoli: apostasia, accusa che solo per le pressioni internazionali non le è costata la vita. Eppure… eppure la condizione delle donne africane non è così drammatica come, forse, ci viene da pensare.

Ad esempio nella zona del Magreb, le primavere arabe, con tutte le loro contraddizioni, ci hanno svelato un mondo variegato e dinamico di donne, giovani, ma non solo, colte, emancipate, che stanno lavorando per creare una società nuova e più equilibrata, con l’obiettivo da centrare della parità di genere.

Ci sono donne africane importanti, in politica, che diventano Presidenti di Stato (è il caso dell’imprenditrice Ellen Johnson Sirleaf, al timone della Liberia dal 2005), artiste simbolo come Miriam Makeba o sportive diventate incarnazione viva di emancipazione femminile come Hassiba Boulmerka, la prima donna africana a vincere una medaglia d’oro olimpica (per i 1500 metri piani, a Barcellona 1992), divenuta per questo oggetto di minacce da parte degli integralisti islamici (essendo lei algerina).

Le donne africane che vediamo arrivare a centinaia nei barconi della salvezza (più spesso della morte) e che sbarcano a Lampedusa, talvolta incinte o con bambini piccoli, che sognano un futuro migliore, ci ricordano che laddove vi siano guerre sanguinose, non c’è possibilità alcuna di emancipazione, di liberazione.

Ma le piccole oasi, costruite anche grazie all’attività di tante ong internazionali, che si occupano di curare l’istruzione femminile, in modo da aiutare la popolazione femminile, fin dall’infanzia, ad emanciparsi, trovare un lavoro e rendersi finanziariamente autonome, nonché a contribuire all’economia del territorio, (pensiamo solo alle tantissime aziende agricole e cooperative gestite da donne in tante zone dell’Africa tropicale e nel corno d’Africa, come l’Etiopia), ci forniscono barlumi di speranza per il futuro. Perché, come disse in un discorso illuminato qualche anno fa la regina di Giordania, Rania : “Le bambine salveranno il mondo”.

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Foto| via Pinterest

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ultimo aggiornamento: 08-07-2014