Siamo abituati a considerare il Giappone come una delle nazioni più progredite, più ricche e organizzate del mondo. E questa è una verità che non si può smentire. Ma c’è un “difetto” originario che affligge anche il pur modernissimo Paese del Sol Levante, che ci sbigottisce e disturba profondamente: il ruolo marginale che ha sempre attribuito alle sue donne, fortemente discriminate soprattutto sul fronte lavorativo.

Per chi sia cresciuto a pane e cartoni animati giapponesi, la cosa appare alquanto sconcertante, perché le eroine della anime made in Japan sono coraggiose, propositive e moderne in modo “occidentale”, protagoniste della propria vita e non certo geishe nate per assecondare i desideri maschili.

Eppure… anche questo apparente paradosso ha una sua spiegazione. L’immagine tradizionale della donna in Giappone è sostanzialmente doppia: da un lato c’è quello preponderante di “badante” dei bisogni maschili, una figura dolce, silente e premurosa, che ha il compito precipuo di facilitare la vita dell’uomo (colui che lavora e mantiene la famiglia), eliminando ogni possibile fattore d’impaccio e di impiccio dalla sua esistenza casalinga, che deve essere placida, serena, regolata.

La donna giapponese deve essere colta, certo, raffinata, elegante come le geishe di un tempo, ma pur sempre una figura subalterna, in ombra rispetto a quella maschile. D’altro canto la donna è soprattutto madre, colei che porta in sé la vita e che la custodisce, il fulcro stesso della società, la sua forza e la sua saggezza.

Ma proprio in quanto madre, la donna in Giappone è sempre stata penalizzata sul fronte della carriera, e lo è stata nei modi più beceramente maschilisti che si possano immaginare. Ad esempio, seppur preparate quanto gli uomini, altamente qualificate e referenziate, le donne non riescono a fare carriera come gli uomini, e molto difficilmente raggiungono posizioni di vertice che vengono considerate appannaggio maschile.

A parità di ruolo guadagnando di meno (circa il 30%), e se per caso rimangono incinte, vengono invitate a lasciare il loro posto di lavoro per occuparsi della famiglia. Questa rinuncia, poi, è quasi resa necessaria da ragioni pratiche. Junji Tsuchiya, sociologo dell’Università Waseda di Tokyo, spiega qual è il problema di fondo:

Il nostro Paese, per quanto moderno manca di strutture di supporto, come asili nido, incentivi economici per le donne lavoratrici, permessi e congedi di maternità

In buona sostanza una donna che abbia dei figli e lavori si trova a doversi sobbarcare una tale mole di incombenze che rischia di venirne travolta, e questo induce buona parte della ragazze a lasciar perdere la carriera e fare le casalinghe una volta diventate mogli e mamme. Ma se questo semplice modello familiare di base poteva funzionare fino a qualche anno fa, fino a prima della crisi economica che ha investito anche il Giappone, ora appare inevitabilmente inadeguato.

Le donne in economia “servono”, serve il loro apporto come professioniste che producono ricchezza e come consumatrici che hanno soldi da spendere, quindi è bene potenziare la loro presenza nel mondo del lavoro. Allo stesso tempo servono incentivi per le famiglie giovani a fare più figli, perché il poco lavoro, il precariato e gli stipendi maschili mediamente più bassi inducono le coppie e non riprodursi, con conseguente contrazione delle nascite e denatalità.

Insomma, una vera e propria impasse che il Governo attuale, presieduto dal premier Shinzo Abe, sta cercando di superare. Per incrementare il lavoro femminile è necessario eliminare molti degli ostacoli che impedivano o non stimolavano le donne di accedervi, ad esempio la promessa di un aumento di stipendio (con stimoli all’assunzione per le aziende tramite incentivi statali), o garanzie di mantenimento del posto di lavoro in caso di maternità. Sarà necessario avviare anche la realizzazione delle strutture di supporto per la madri lavoratrici di cui sopra.

Una vera e propria rivoluzione che, però, appare sostanzialmente strumentale, più che strutturale. Se alle donne, da qui ai prossimi anni, verranno offerte più opportunità di far carriera e verrà facilitata la vita, sarà solo finché la crisi economica non sarà finita? Il cambiamento dovrebbe essere quindi più profondo, mirato al raggiungimento di una vera parità di ruoli tra uomini e donne.

Chissà che non siano le stesse donne giapponesi a spingere per questo tipo di trasformazione, una volta che si renderanno pienamente conto di quanto possa essere gratificante potersi esprimere a 360° senza limitazioni, come madri e come lavoratrici. Noi abbiamo un suggerimento, per il Giappone (e anche per la nostra Italia): perché non prendere esempio dalla nuova legge francese contro ogni discriminazione “reale”? L’economia e l’equilibrio sociale, ne siamo sicure, ne trarrebbero giovamento.

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ultimo aggiornamento: 07-08-2014