Lyndi Trischler, una poliziotta di 30 anni di Florence, Kentuky (USA), ha deciso di mettere in causa il suo Comune e il Dipartimento di Polizia da cui dipende, per “discriminazione” sul lavoro sostenuta, nella sua lotta, dalla Commissione americana per le Pari Opportunità.

La vicenda di questa giovane donna che svolge un lavoro fisicamente molto impegnativo, è piuttosto emblematica e interessante perché altra faccia di uno specchio – quello della “apparentemente” perfetta parità di genere in ambito lavorativo praticata negli USA per legge – che vale la pena di essere mostrata.

In qualità di agente dell’ordine, Lyndi deve indossare un corsetto antiproiettile alquanto aderente e una pesante cintura con pistola e proiettili, che in condizioni normali non creano problemi, ma che risultano incompatibili con una gravidanza avanzata. Già madre di una prima bimba, questa giovane e combattiva poliziotta, appurato che il suo addome di cinque mesi non veniva in alcun modo “contenuto” dal giubbino antiproiettile e che la cintura con la pistola, le cingeva il pancione tanto da farle venire le palpitazioni, in accordo con il suo medico aveva chiesto di poter traslocare dalla “strada” ad altra location, ovvero un più tranquillo ufficio ove svolgere mansioni burocratiche.

Questo per il tempo della gestazione, conclusasi la quale, Lyndi sarebbe stata pronta per “rientrare” nella sua divisa di ordinanza. Dal momento che questo spostamento di mansione era già stato praticato durante la prima gravidanza, per Lyndi si trattava di una richiesta logica che sarebbe andata senz’altro a buon fine. Peccato che di diverso parere fosse il suo “boss”, il Dipartimento di Polizia della città di Florence, dove gli agenti donne sono due su 60 (maschi): o la futura mamma continuava a svolgere il suo normale lavoro in strada, con giubbino e pistola, o non le restava che mettersi in aspettativa senza retribuzione.

Ma Lyndi, come poteva permettersi il lusso di stare a casa tanti mesi senza ricevere un regolare stipendio? Ecco perché, l’unica soluzione , a quel punto, era rappresentata dal passaggio alle vie legali. Ci sono buone speranze che la donna vinca la sua causa, ma non si tratta certo di un caso isolato. Secondo i dati della EEOC (Equal Employment Opportunity Commission, la commissione federale per le pari opportunità sul lavoro), nonostante le leggi americane tutelino i diritti delle donne lavoratici in gravidanza, i casi di discriminazione e mobbing sono molto numerosi.

Troppe donne vengono costrette a lavorare in condizioni incompatibili con la gravidanza, oppure lasciate a casa senza stipendio, cosa che le espone al rischio di perdere persino il diritto all’assistenza sanitaria. E troppe non denunciano il trattamento discriminatorio per paura di perdere del tutto il posto di lavoro e di non trovarne presso altre aziende. In teoria, infatti, queste ultime dovrebbero mettere le future mamme nelle condizioni ideali per continuare a lavorare, dirottandole verso mansioni adatte ad essere svolte anche a gravidanza avanzata, oppure modificando gli ambienti o gli strumenti professionali in modo che non rechino loro danno.

La gravidanza, infatti, non è una malattia, ma i cambiamenti del corpo femminile rendono impossibili, o molto difficoltose, alcune attività che prima non creavano problemi, pertanto è compito del datore di lavoro eliminare, laddove possibile, gli ostacoli. Del resto, sostengono gli avvocati della EEOC, esiste una letteratura medica controversa a proposito di ciò che una donna incinta può fare, e cosa no, su cosa la possa danneggiare o meno, e molti medici subiscono delle “pressioni” in tal senso.

Tutto questo, è chiaro, accade perché il mondo del lavoro è dominato dagli uomini, del tutto plasmato sulle esigenze maschili, pertanto l’attuazione delle pur ottime leggi contro la discriminazione femminile vengono vissute da molte aziende come una limitazione o, al meglio, come un “fastidio”, senza riflettere neppure per un attimo che sono le stesse imprese a perderci in termini di guadagno, dal momento che una donna incinta è “produttiva” quanto una che non lo sia, talvolta persino di più, se messa nelle condizioni migliori per dimostrarlo.

Ergo, anche nella più compiuta democrazia del mondo, ancora esiste una forte sacca di resistenza contro la parità di genere anche in ambito lavorativo. Ci domandiamo quanto tempo ancora occorrerà a che le donne siano considerate sempre e comunque una risorsa professionale, e quanto, affinché la gravidanza sia riconosciuta come un vantaggio (per tutta la società), e non un limite, un “danno collaterale”, un “fastidio”.

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Fonte| Washington Post
Foto| via Pinterest

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ultimo aggiornamento: 05-09-2014