È di questi giorni una fastidiosa polemica che la riguarda da vicino e unisce il suo nome a quello di un reportage del New Yorker. In negativo. Parliamo di Vandana Shiva, la paladina della biodiversità, della sostenibilità ambientale e dell’ecofemminismo, una donna che delle scelte etiche ha fatto il proprio marchio di fabbrica e che per questo è spesso bersaglio di acide invettive ai suoi danni.

Vandana Shiva nasce in India, nella valle del Dehradun il 5 novembre del 1952, da papà ufficiale del Servizio Forestale Indiano (IFS) e da madre contadina. E proprio dai genitori assorbe quella meravigliosa e appassionata indole panica e il rispetto per la natura e le sue creature.

I primi studi della giovane Shiva la portano verso il ramo filosofico-scientifico, conseguendo una laurea in Filosofia della Scienza in Canada, presso l’Università di Guelph e un dottorato di ricerca nella medesima materia presso la University of Western Ontario. Tornata in patria i suoi studi proseguono più in ambito ambientale e tecnologico, iniziando a sondare i cambiamenti nelle pratiche legate ad agricoltura e alimentazione.

Dalla fine degli anni 80 il nome di Vandana Shiva è sempre più legato all’attivismo in campo ambientale e anti-globalizzazione, quest’ultima vista in negativo come “livella” della cultura e non come abbattimento dei confini territoriali per condividere saperi e tradizioni.

E in effetti la spinta no global della Shiva ha a sostegno della sua stessa esistenza dati e numeri in grado di far comprendere quanto questo processo di interdipendenze culturali, economiche, politiche e tecnologiche sia stato gestito a vantaggio dell’Ovest del mondo e a svantaggio dei paesi più poveri.

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Parlavamo in incipit di articolo della famosa polemica del New Yorker magazine. Ebbene, la lancia scagliata contro la Shiva, parte per mano del giornalista scientifico Michael Specter, che mette in dubbio questo e gli altri capisaldi del pensiero della scienziata, contestando anche i famosi dati a cui accennavamo prima.

E ci serviamo della filippica di Specter per mettere in evidenza proprio questi ultimi che, a ben vedere, ci appaiono difficili da contestare. Innanzi tutto lo Shiva-pensiero va, come detto a favore della biodiversità, vista come opposto delle monoculture spesso imposte dalle multinazionali (fra cui Monsanto) agli agricoltori dei paesi in via di sviluppo.

Non solo, va considerata anche la lotta agli organismi geneticamente modificati, allo spreco delle risorse territoriali dei paesi poveri a vantaggio delle industrie straniere delocalizzate (fra cui Coca-Cola e compagnia bella) e alla tendenza a voler sottovalutare i problemi etici e non solo materiali che certe scelte scellerate generano.

Vandana Shiva ha più volte urlato a gran voce la triste situazione degli agricoltori indiani dal Maharashtra all’Uttar Pradesh, territori sconvolti da un’ondata di suicidi a causa dei pessimi raccolti e dei debiti nei confronti di Monsanto, che dal 1988 si è appropriata in India della proprietà intellettuale delle sementi (grazie ad una manovra della Banca Mondiale che ha chiesto la deregolamentazione in questo campo).

Questo si è tradotto in una serie di ricerche tecnologiche sui semi (soprattutto quelli di riso e cotone), resi OGM ed immessi sul mercato come brevetto Monsanto. Il mercato del seme è così diventato monopolio (anche manipolato) di una multinazionale straniera che ha stravolto l’agricoltura indiana, annientando la biodiversità e facendo salire i costi di gestione delle coltivazioni.

Il famoso cotone BT marchiato Monsanto, che secondo Specter è stata l’innovazione del secolo, è stato al contrario il responsabile di pessimi raccolti, di indebitamento degli agricoltori per l’acquisto di pesticidi e fertilizzanti (questo cotone sarà pure un OGM ma non è per nulla gestibile) e della triste serie di suicidi generati dalla crisi agricola.

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Vandana Shiva, che da anni mette in guardia contro le politiche anti-ambientaliste ma anche anti-umane delle grandi industrie, si è sempre schierata a favore della diversità come fonte di ricchezza e del rispetto della vita come base necessaria per un vivere equo e giusto.

Più volte ha affermato che il primo errore dell’uomo è stato seguire le affermazioni di Sir Thomas Bacon sulla necessità di addomesticare la natura violentandola e mettendola in una posizione di sudditanza nei suoi confronti. E questo, in tempi moderni, ha mostrato come in realtà questa violenza si sia ritorta contro l’uomo stesso.

Da qui si parte anche per sottolineare un altro focus point del pensiero di Vandana Shiva, che dimostra come il concetto di Bacon sia sempre stato legato ad un’idea di dominio mascolina che ha portato ai danni del colonialismo, dell’apartheid e delle guerre, tutte legate dalla presenza del maschio alfa che si concede dei diritti, fra cui quello di vita e di morte, sulle altre creature.

E se da questa visione di machismo si migrasse verso una sorta di rinascimento naturale supportato non dagli uomini ma dalle donne? L’ecoffemminismo, di cui la Shiva si fa portavoce, ribalta gli ancestrali connotati del maschio guerrafondaio di ogni epoca che armeggia nella stanza dei bottoni, sostituendolo con donne illuminate, più attente all’ambiente e alle creature grazie al loro potere di generare la vita.

La donna è vista come madre, come curatrice del mondo, come ventre che accoglie e come braccia usate per avvicinare anziché respingere. È dalla naturale indole della donna all’unione e alla comprensione che nasce l’ecofemminismo, basato anche sul fatto che in molte culture è la donna che lavora la terra e che la rispetta per avere i suoi migliori frutti.

L’idea è un po’ provocatoria ma anche molto affascinante, perché permetterebbe di vedere il mondo sotto una nuova luce. E a ben guardare questa ha il sapore dell’innovazione ma non della novità, visto che ogni sistema politico democratico che si rispetti punta sulla rotazione fra soggetti al potere per garantire ricambio di idee e di buone pratiche.

E se si premesse il pulsante shift e di colpo le poltrone che contano fossero occupate solo da donne? Un tentativo in verità varrebbe la pena farlo. E nel frattempo, a chi ha puntato il dito contro la partecipazione della Shiva al prossimo Expo 2015, impressionato dai paroloni del New Yorker, suggeriamo di acculturarsi meglio.

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ultimo aggiornamento: 05-10-2014