Ancora un 25 novembre, ancora una Giornata internazionale contro la violenza sulle donne da celebrare, ancora un’occasione per fare il punto della situazione su ciò che è stato fatto per difendere il genere femminile dalla piaga del femminicidio, ancora un giorno per parlare a cuore aperto di cosa davvero non va e cosa non cambia.

Il 2013 per noi donne è stato un anno decisamente funesto. Anno nero lo hanno persino chiamato, nero come lo spauracchio che ci terrorizzava da bambine, quello che poi crescendo abbiamo capito non essere un personaggio di fantasia, bensì l’uomo che giura e spergiura amore ma poi brandisce un coltello, picchia e manca di rispetto alla propria compagna.

L’anno scorso in Italia ci sono state 179 donne uccise, con una media di una ogni due giorni, il 14% in più rispetto al 2012. Nel 70% dei casi il delitto è avvenuto fra le mura domestiche e nel 92% il carnefice è stato, appunto, l’uomo nero di turno, pronto ad ergersi a Dio, un dio vendicativo e becero, che si arroga il diritto di togliere la vita.

Questo il triste bollettino di guerra dell’Eures, che ha stilato il suo secondo e impietoso rapporto elencando il numero degli omicidi volontari aventi le donne come vittime.

Certo, nel conteggio complessivo, una percentuale di questi delitti non è passionale, ma proviene dagli altrettanto tristi omicidi a scopo di rapina, per cui le signore anziane sono il bersaglio prediletto. Il che delinea certamente un altro tipo di aggressore (estraneo), ma non muta e anzi avvalora la tesi che il genere femminile intero sia ancora da tutelare, forse ancora più ora che nel passato, nonostante la modernità abbia piantato molte bandierine a nostro favore.

Ma cos’è che sta realmente succedendo? Quegli argini del vivere civile costruiti con tanta fatica stanno davvero cedendo miseramente solo oggi? Perché “femminicidio” e “violenza di genere” sono di colpo diventate le parole chiave più usate per descrivere i moderni fatti di cronaca?

È bene fare un po’ di chiarezza e provare a rispondere a queste domande punto per punto. Innanzi tutto sarebbe quasi bello pensare che la violenza sulle donne sia una cosa dei giorni nostri, perché lascerebbe campo libero alla speranza di tornare indietro e risolvere così il problema.

Invece, ahinoi, il femminicidio è si un termine di nuova istituzione, ma si è solo sostituito a più vecchie perifrasi che definivano ugualmente la questione. Di fatto il mostro già esisteva, solo che non aveva ancora un nome.

E in passato, oltre al nome, non aveva anche la giusta punizione, in quanto chi si macchiava di omicidio ai danni di una donna, se ne era il compagno, poteva addirittura vedere la propria pena decurtata, grazie alle attenuanti generiche date dalla passionalità del delitto.

Per la rinomata e triste serie, citando De Gregori “Cercavi Giustizia ma trovasti la Legge”, né più e né meno. Per fortuna che quella Legge, per anni così lacunosa e ingiusta, al giorno d’oggi vanta traguardi non indifferenti in direzione di una maggiore tutela del Giusto in senso più stretto.

Parliamo ad esempio della Convenzione di Instanbul, che ha gettato le basi per un riconoscimento a livello sovranazionale del diritto delle donne ad essere protette, difese e a garantire una valida certezza della pena per chi usa violenza contro di loro. Ma è anche il metodo Scotland, studiato dalla ex Ministra laburista inglese Patricia Scotland, che durante il suo mandato si è impegnata con successo nella riduzione delle violenze domestiche nel Regno Unito.

A decretare il successo di questo metodo, giudicato dalla stessa inventrice “olistico”, è stata la collaborazione fra gli enti statali, quelli religiosi, le associazioni e le aziende, che hanno creato una rete in grado di comunicare e di fornire i giusti servizi di supporto alle donne in difficoltà.

E come ogni best practice, usando una terminologia cara alle pubbliche amministrazioni, anche le linee guida Scotland sono state esportate e mirano ad essere prese ad esempio da altre nazioni, Italia compresa. Proprio da noi, dove i dati dell’anno nero hanno fatto tremare le vene dei polsi a molti.

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In verità, la cosa che qui come altrove dovrebbe fare più paura, non sono tanto i numeri delle statistiche, quanto quelli del sommerso. Per rispondere alla seconda domanda che avevamo posto in questo articolo: no, gli argini non si sono mossi di un millimetro, erano traballanti anche prima ma non lo si sapeva.

I delitti che oggi rientrano nella categoria dei femminicidi fino a pochi lustri fa venivano malamente smistati in altri gruppi “per assonanza”. E se questo da una parte comportava, oltre ad un’errata classificazione, ad un fare i conti con le ingiustizie che ne conseguivano, dall’altra portava le vittime a non parlare, certe di non essere comprese e tutelate.

In fondo tutti sappiamo che c’è un alto livello di resistenza a far passare il messaggio che orli corti, maggiore indipendenza e anche maggiori libertà della donna non possono e non devono rappresentare appigli a giustifica di percosse, violenze sessuali, mutilazioni, minacce e terrorismo psicologico.

Da una parte Pontifex e company chiedono alle signore di farsi autocritica, viste come responsabili dei comportamenti disdicevoli dei propri uomini (un po’ come se il Girl Power fosse la causa della trasformazione di certi soggetti in moderni Orlandi Furiosi, con un senno da recuperare a cavallo di un Ippogrifo!), dall’altra una buona fetta della società, ancora storce il naso per alcuni fatti di cronaca, sentenziando che alla fine la vittima un po’ se l’era cercata.

La verità è che il mondo è ancora prettamente maschilista, a Roma così come a Londra o New York, e fa fatica a lavorare in modo convinto per una reale inversione di tendenza. La modernità ancora arranca nel tentativo di smontare certi stereotipi e forse, in qualche modo, li alimenta anche, indulgendo nell’educazione al rispetto da parte delle nuove generazioni.

Se l’eroina del dolce stil novo era una donna vista come creatura suprema, quasi eterea, da venerare come una Madonna e a cui l’uomo-cavaliere si votava per garantirle protezione, amore puro e fedeltà in cambio di un suo sguardo, quella del giorno d’oggi è una sopravvissuta. E ai suoi carnefici ma anche e soprattutto alle malelingue.

La Vergine e Madre che cantava Dante, “colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura”, non è più di moda. Ha perso smalto e appeal e si è trasformata in un personaggio vintage, figlia del suo tempo e del suo spazio.

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Si, certamente il sommo poeta dedicava i suoi versi più dolci alla Vergine Maria, da sempre vista come esempio di perfezione, ma quello che non va dimenticato è che prima di essere Madre di Cristo lei era anche una donna. Ed è dal grembo di ogni donna che nascono i figli, perché solo questi corpi, all’apparenza fragili, sono in grado di coltivare una nuova vita.

Fosse anche solo perché autrice di questo meraviglioso miracolo, la donna meriterebbe rispetto, onore e amore. Invece talvolta viene ripagata con la meschinità, con l’incomprensione, con sfregi sul viso, sul corpo e nell’anima. Cose che non vengono capite e anzi diventano motivo di vergogna più per la vittima che per il suo carnefice.

Quello che tutti dovremmo intendere, alla luce di questa Giornata internazionale contro la violenza di genere, è che non esistono donne di serie A e di serie B, ma solo donne da proteggere, indipendentemente dal loro modo di vestire o dai loro eventuali costumi libertini.

Il traguardo più bello e più grande sarebbe eliminare l’idea che una vittima di femminicidio, qualunque siano i suoi scheletri nell’armadio, abbia un qualsivoglia grado di colpa in quello che le è capitato. E che allo stesso modo mai il suo assassino possa suscitare una qualche latente comprensione per ciò che ha fatto.

Visto che feste comandate e ricorrenze esigono piccoli presenti, facciamoci un regalo per questo 25 novembre, impariamo a rispettarci e anche a schierarci sempre dalla parte giusta. Senza pregiudizi e per il nostro bene.

Perché è anche così che si cambia il mondo in meglio.

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ultimo aggiornamento: 25-11-2014