Ho aspettato un paio di settimane prima di mettermi a scrivere quest’articolo. Ho voluto assimilare, prendere confidenza, digerire per bene il nuovo design di Domus prima di correre il rischio di scrivere a caldo e d’istinto. Alcune cose di primo impatto sono rimaste, altre invece hanno avuto il tempo di maturare e di darmi la possibilità di cambiare la mia prima impressione “a pelle”.
E’ dai tempi dell’Istituto Superiore di Design (15 anni fa…) che “frequento” le pagine di Domus, che le divoro dall’inizio alla fine, che ne apprezzo il divenire, i cambiamenti ma soprattutto un certo rigore concreto che in qualche modo ha contribuito alla mia formazione di Designer.
Soprattutto – in quest’ultimo anno – ho avuto modo di condividere (da lettore) il percorso piuttosto caotico – “la metamorfosi” come dice Flavio Albanese, direttore di Domus – che la rivista ha “subìto”. Percorso difficile, complesso, che ha reso a tratti la rivista irriconoscibile; ma “la nuova immagine di Domus – scrive Albanese nell’editoriale – può finalmente rispettare, anche nella sua veste formale, l’obiettivo che da un anno si era data per i suoi contenuti: essere una rivista sintonizzata sulla lunghezza d’onda dello Zeitgeist, dello spirito del tempo”. E ci riesce a pieno.
Trovo nel complesso il lavoro fatto da Onlab davvero gradevole e per molti versi innovativo.
Ma vengo al dunque: e comincio da ciò che ho trovato col tempo noioso e poco efficace, così chiudo l’articolo con critiche positive.
La nuova veste grafica di Domus probabilmente pecca un po’ nella scelta dei font. Nulla da dire per quanto riguarda l’uso del Gill (anche se è un font che non amo utilizzare, lo trovo troppo sinuoso, fluttuante, non mi dà quel senso di leggibilità neutra che chiedo ad un font, ma questo è un altro discorso) nella versione Oroso, ciò che mi dispiace invece è il Relevant, font appositamente disegnato da Mika Mischler per l’occasione. Probabilmente non ce n’era bisogno, ci sono decine di altri font che avrebbero fatto bene il proprio lavoro, senza stare lì a ridisegnarne uno ex-novo che non aggiunge nulla al Design, anzi, semmai toglie rigore e leggerezza all’impaginato. Come ad esempio l’inutile artificio di avere due tipi di “a” nella versione light e in quella bold e dunque l’uso del grassetto per la lingua inglese.
Aldilà di questo, bisogna riconoscere in maniera quasi oggettiva che il resto dell’intervento grafico fatto da Onlab è di livello notevole. Prendiamo ad esempio il concept della copertina: il film di plastica che l’avvolge nasconde e poi svela, passando da un’immagine composta dalle trasparenze ad un’immagine nuova ed inaspettata; il gesto del lettore di rompere la plastica per accedere ai contenuti è quasi come un momento di creazione, di intervento finale per la completezza dell’oggetto.
E veniamo alla parte forse ancora più geniale. “La forma segue il format. […] Una serie di colonne raccoglie la vastità del reale nella raffinata eccentricità della rivista. Le colonne collegano il tetto alla base”. L’articolo di pag. 17 continua: “Una serie di colonne di larghezza diversa forma lo schema grafico di base. Una varietà di colonne viene scelta in relazione alla dinamica di una storia da creare il ritmo giusto ma anche un ritmo inadatto”. Perfetto. Eccezionale anche l’uso del colore e del bianco, ampio, ampissimo e mai fine a sé stesso.
La ciliegina sulla torta è il cross-fading tra gli articoli. Una specie di dissolvenza tra la sequenza di ritmi, di immagini e parole. Non una divisione netta di inizio fine, ma un mixing perfetto come in una playlist ben strutturata del proprio iPod: infatti “ogni numero ruota intorno a un motivo centrale e alle sue variazioni per creare un proprio ritmo e un flusso di ispirazione jazzistica”.
Ottimo lavoro, direi.

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ultimo aggiornamento: 26-04-2008