E’ scomparso lo stilista Elio Fiorucci, lo stilista è stato trovato stamattina nella sua casa di viale Vittorio Veneto 8, a Milano. Aveva da poco compiuto 80 anni, lo scorso 10 giugno. Ci lascia lo stilista-imprenditore che ha rivoluzionato la moda italiana, immettendone lo spirito londinese, l’inventore dei capi in colori flou, delle T-shirt stampate con angeli e cuori.

Nato a Milano, inizia da giovane ad occuparsi di moda, prima collaborando con il padre. Nel 1967 apre il primo negozio in Galleria Passerella a Milano disegnato da Amalia Del Ponte. Nel 1970 inizia la produzione di abiti, jeans in particolare, con il marchio Fiorucci. I prodotti vengono distribuiti anche all’estero, prima in Europa e poi in Giappone, Stati Uniti e Sud America.

Nascono i primi negozi Fiorucci a Londra e a New York per poi proliferare in molte delle grandi città in giro per il mondo. I suoi prodotti divengono subito un fatto di costume e finiscono con l’attrarre l’attenzione del jet set internazionale. Dopo la grande espansione durata circa tre decenni, nel 1990 cede l’attività alla società giapponese Edwin International che mantiene a Milano il solo centro di design del gruppo. Nel 2003 crea il progetto Love Therapy, che comprende jeans, felpe, abiti e accessori.

E noi vogliamo ricordarlo così, con i suoi ultimi pensieri, anzi un vero e proprio manifesto per dare voce ai bisogni di un futuro migliore, come Ambassador di Expo Milano 2015.

“Alla fine della terribile guerra mondiale, indice di una follia che sembrava senza fine, si è generato un movimento di sognatori illuminati che vedevano nella pace tra gli uomini il più grande bene, approdati poi negli anni 50 e 60 a uno stile di vita che ha trovato la sua massima sintesi nello slogan “Peace and Love”. Pace e amore. Era una visione poetica che introduceva a un discorso di equilibrio e di armonia tra gli uomini, la natura e gli animali, in una sorta di rispettosa convivenza e condivisione di uno stesso, identico scenario, di uno stesso spazio vitale. Non era certo solo un sogno dettato dall’emozione di un momento, bensì un progetto globale che partiva da una profonda analisi dei tempi. Una scelta sostenuta da intellettuali, poeti e scrittori come quelli della beat generation, le cui parole di libertà ci arrivavano da lontano, grazie all’intelligenza di Fernanda Pivano. Si era innescata così spontaneamente una reazione umana che aveva nuovamente alimentato gli ideali e le lotte del movimento pacifista. La pace, la non violenza intese quindi come una vera e propria necessità culturale, un concetto da sempre inserito nelle maglie di tutte le società civili. Nel tempo abbiamo però perso di vista gli obiettivi che ci eravamo prefissati e, una volta passata la paura, molti di noi sono ritornati agli stessi atteggiamenti egoistici di prima, alle stesse abitudini e attitudini crudeli. L’ho fatto anch’io per molto tempo e non ho quindi alcuna intenzione di lanciare anatemi. Vorrei solo risvegliare le coscienze, perché ci vuole coerenza e coraggio per poter cambiare e dobbiamo farlo qui e ora: il pianeta ci sta trasmettendo inequivocabili segnali di sofferenza. Come suggeriva Gandhi: “Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere”. Apriamo quindi bene gli occhi e il cuore per guardare finalmente con onestà e chiarezza a tutto quell’orrore e alla violenza con cui gli uomini trattano i loro simili e soprattutto gli animali.

La nostra intelligenza non ci dà certo il diritto di crederci superiori a loro solo perché sono più deboli e non riescono a parlarci e a difendersi. Sono comunque creature sensibili, sentono il dolore, soffrono. Il cambiamento dipende solo da noi e inizia dalle nostre abitudini alimentari, dalle nostre scelte al supermercato, al ristorante e nei negozi di abbigliamento. L’informazione ora ci raggiunge ovunque e non possiamo più fare finta di non sapere che cosa succede negli allevamenti di animali da reddito che producono dannose emissioni di CO2, o nei macelli dove gli animali urlano e cercano di divincolarsi producendo tossine che intridono le loro carni (che noi poi mangiamo) prima di finire la loro vita sgozzati, gassati, decapitati, squartati, scuoiati e poi appesi a un gancio.

E questo dopo essere stati sfruttati per una vita intera. A completare il quadro interviene poi una “tradizione” culinaria che considera alcuni animali privi di dolore se cucinati vivi, come le aragoste, gettate nell’acqua bollente, o le anguille, agonizzanti nelle padelle, quando già esiste il modo di ucciderle prima di buttarle nelle padelle.. Ma che sapore ha il dolore? Animali trattati come catene di montaggio per produrre altri animali, altro cibo e soddisfare piaceri e richieste sempre più crescenti, in una logica commerciale ed edonistica che ci ha fatto perdere il senso della misura. Andiamo avanti con cecità anche quando sappiamo perfettamente e scientificamente che la carne produce in noi moltissimi casi di cancro quanto il fumo. Ricordiamoci che il rispetto del Pianeta passa attraverso il rispetto per gli animali. E così pure il nostro progresso. Lo diceva anche Gandhi: “La grandezza di una nazione e il suo progresso morale possono essere valutati dal modo in cui vengono trattati i suoi animali”. Esiste poi un altro punto di vista da cui osservare la realtà e che ci può far riflettere ulteriormente. Quello che Conservation International chiama “Our Humanifesto”: “Nature does’nt need people. People need nature” (La natura non ha bisogno degli uomini. Sono gli uomini ad avere bisogno della natura). La natura si evolve continuamente, trasformandosi e adattandosi perfino ai nostri comportamenti sbagliati. È evidente che può sopravvivere anche se noi scompariamo. Da questa prospettiva tutto sembra più drammatico e rende ancora più chiaro il concetto che la nostra responsabilità è soprattutto nei confronti di noi stessi, dei nostri figli e della nostra vita. Ci abbiamo messo il cuore, la mente, la fatica per costruire nuove architetture, nuove città, nuove culture, nuove estetiche, ad allevare bambini, a circondarci nelle nostre case di bellezza, arte, armonia, amore.

Che cosa ne sarà di tutto questo? Il tema di Expo 2015 “Nutrire il pianeta – Energia per la vita” ci riporta quindi urgentemente alle nostre responsabilità, è un’occasione unica che ci viene data per porci delle domande e riflettere su quanto abbiamo fatto finora, sul nostro destino. Non è di solo cibo che viviamo. Ci nutriamo infatti anche di sguardi, di gesti, di profumi, di sorrisi, di incontri, di arte e musica. Siamo corpo e anima, cuore e cervello. La nostra società si è infatti evoluta grazie alla capacità di alcuni uomini visionari di trasformare le idee in oggetti concreti, i sogni in realtà. Il cibo è comunque necessario per innescare quel meraviglioso processo di trasformazione fisica e spirituale, diventa energia creativa, diventa crescita, intelligenza, bellezza. È il punto di partenza di una cultura del dare, ricevere, condividere, trasformandosi quindi in “energia per la vita”.

Ma il diritto ad alimentarci ci dà anche il diritto ad esaurire egoisticamente tutte le risorse del Pianeta? Ci autorizza forse a distruggere la natura e a maltrattare gli animali? Per uno stupido delirio di onnipotenza abbiamo sicuramente oltrepassato il senso della misura, allontanandoci da quell’insegnamento alla base di tutte le relazioni e di tutte le religioni: il rispetto per l’altro, per il diverso. Abbiamo dimostrato così una mancanza assoluta di etica e a lungo non ci siamo preoccupati delle conseguenze delle nostre azioni. Mi piacerebbe quindi reintrodurre nel nostro lessico quotidiano due parole considerate ormai obsolete. La prima è spreco. Perché i nostri eccessi si riflettono negativamente sull’equilibrio del Pianeta, limitando le risorse di tutti. Cerchiamo allora di tradurre in un codice deontologico le regole di una convivenza armoniosa, di un condivisione equa, mettendo nero su bianco i nostri doveri verso gli animali, verso la natura, verso l’ambiente. Verso il prossimo. Riscopriremmo così automaticamente il valore della seconda parola: empatia.”

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ultimo aggiornamento: 20-07-2015