
Roberto Vecchioni
Il noto cantautore ha ricordato suo figlio Arrigo, morto pochi mesi fa a 36 anni ma non solo. Le parole di Roberto Vecchioni.
80 anni per Roberto Vecchioni che al Corriere della Sera ha avuto modo di ripercorrere un po’ la sua vita. Dagli inizi, la sua musica, ma anche il privato, dalla moglie alla recente morte di suo figlio Arrigo all’età di 36 anni. Ecco alcuni passaggi dell’intervista.
Roberto Vecchioni: 80 anni e la morte del figlio Arrigo

“Come è avere 80 anni? Io credo che sia un’età assolutamente uguale a tante altre. Il tempo ha due funzioni: una esterna, che ci debilita o ci opprime. È come scalare ogni giorno una montagna tremenda: è il nostro fisico. Poi c’è l’altra, con Bergson potremmo dire che è l’interiorità di ciascuno di noi. E questa stagione, che riflette il tempo della coscienza, ha poche variazioni. Magari ha slittamenti intellettuali, ideologici, ma la sua natura, dai vent’anni in poi, non si riduce. Anzi, aumenta ogni ora”, ha risposto Vecchioni.
“È un tempo della vita di cui ti sai appropriare. Si è capaci di custodirlo, di assaporarlo con il pensiero. Mentre il destino ha un peso rilevante nella vita fisica, in quella della tua coscienza conta ben poco. È proprio la tua scelta che vince, il libero arbitrio del tuo ragionare e delle tue decisioni”.
“Quali sogni che avevo da ragazzo si sono realizzati? Nessuno completamente. Si sono realizzati in parte, poi si sono spezzettati, poi realizzati di nuovo. È il ciclo normale dell’esistenza umana: primavera, estate, autunno, inverno. Le settimane che finiscono inevitabilmente con domenica e cominciano con lunedì. La vita del mondo è un ciclo, non esiste una definizione finale o un approdo finale […]”.
Il figlio Arrigo
Nel corso dell’intervista anche un passaggio, inevitabile, sulla tragica morte di suo figlio Arrigo due mesi fa. Il ragazzo aveva 36 anni.
“Una cesura tra una vita e un’altra, lo è stato ancora di più per mia moglie. Non l’ho presa come un’ingiustizia. Questo no, assolutamente no. Mi viene in mente Eschilo che diceva: “Si impara soffrendo”. Forse dalla felicità non si impara un cazzo. Si impara solo soffrendo, sperando di tornare alla felicità”.
E ancora: “È stato il crollo del mondo, dell’universo, ma non di certezze e ideali. E poi lo sento dentro fortissimo, mio figlio. Lo sento intensamente, Arrigo, me lo rivedo dentro continuamente. Lui era bipolare, ho una metafora: un giorno, tornando dall’ospedale vicino Piacenza dove lui andava a fare terapia, abbiamo preso la Statale per andare a Desenzano ed era piena di autovelox. Gli ho detto “Facciamo una cosa: tu guida, passa, ogni volta che c’è un autovelox te lo dico e tu rallenti”. Abbiamo fatto questa strada di corsa e sembrava la vita, proprio. Corsa, corsa corsa e ad ogni autovelox lo fermavo. Quando siamo arrivati lui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Li abbiamo fottuti tutti, papà”. E invece un autovelox ci aveva beccati. Ho tentato di dire: “Non è colpa sua, ma mia, guidavo io”. “Eh no…” hanno risposto. “… abbiamo visto, prendiamo lui”. Questa è la morte di mio figlio: gli autovelox della vita” [..].