Anche nella più democratica e paritaria delle democrazie (quella degli Stati Uniti d’America), esiste una discriminazione di genere che sbigottisce: il divario salariale uomo-donna, definito, in quelle lande dominate dal dio dollaro, gender pay gap. Basta effettuare qualche ricerca a proposito dei salari di manager e semplici dipendenti (in genere del settore privato) per scoprire che le professioniste donne sono spesso retribuite meno generosamente dei colleghi maschi, a parità di titoli, di qualifiche, e soprattutto di produttività.

Ma quali son le ragioni che spingono i “boss” a pagare meno le donne? Probabilmente, perché se lo possono permettere. Se puoi fare una cosa, la fai. Se puoi “risparmiare” sugli stipendi di alcuni dipendenti, lo fai. E non importa se la scelta di chi retribuire di meno sia solo ed esclusivamente di natura sessuale (nel senso di genere), e non per de-merito, assenteismo o minore dedizione alla causa aziendale. E non importa neppure se sai benissimo che è ingiusto. Lo fai.

Anche se la tua dipendete non chiede mai ferie, se non resta incinta (il capitolo delle discriminazioni delle lavoratrici madri o in gravidanza è un altro, drammatico risvolto della storia), anche se è una stakanovista indefessa e copre tutti i turni dei colleghi. Cosa fa una donna che si accorga che la propria busta paga è inferiore a quella del collega uomo che ricopre la sua stessa mansione?

In buona parte dei casi, nulla, soprattutto se lo stipendio è comunque abbastanza alto. Protestare per i propri diritti, anche se sacrosanti, non vien facile alle donne. Eppure quando lo fanno, spesso ottengono un risarcimento del danno subito, proprio in virtù della palese e de tutto ingiustificata discriminazione subita. Secondo i dati aggiornati, in media per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna riceve 77 centesimi (per la stessa mansione, nello stesso ruolo professionale).

Sulla versione online del Guardian, che si è occupato della questione partendo proprio dal “caso” americano, sono state pubblicate le testimonianze di molte donne (non tutte e non solo statunitensi), che accortesi di subire un iniquo trattamento economico da parte dei propri capi, si sono “ribellate“, chi lasciando il posto di lavoro per uno meglio pagato, chi richiedendo un congruo aumento di stipendio.

Tra le tante storie, vi segnaliamo quella, emblematica, di una ragazza californiana di 35 anni, Margaret,che ai tempi del liceo (come tanti teenagers americani) si guadagnava qualche dollaro da spendere lavorando part time in un ristorante.

Facevo la cassiera in un ristorante italiano nei primi anni novanta e avevo un collega maschio, anche lui studente di liceo come me. Scoprii che lui guadagnava più di me quando un giorno confrontammo i nostri assegni (5,5 dollari contro 7 dollari all’ora, n.d.r.). Nessuno dei due si capacitava della ragione di quella disparità di trattamento salariale. Andai a chiedere spiegazioni al boss, uno dei gestori del locale. Inizialmente si giustificò affermando che il mio collega era un po’ più avanti di me, ma alla fine ammise che, semplicemente, riteneva che i ragazzi dovessero essere pagati di più delle ragazze. Fine della storia

Si comincia, così, con una discriminazione da “poco”, per un lavoro part time, ed è solo il primo gradino di una scala di ingiustizie che le donne sono costrette a subire senza neppure rendersene conto. Quanti “capi”, ancora (e pensiamo alla nostra Italia) ritengono che le donne debbano essere pagate meno degli uomini, solo in quanto donne, e fine della storia? Svegliamoci!

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Fonte| The Guardian.com
Foto| via Pinterest

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ultimo aggiornamento: 10-09-2014