La statistica è una scienza fredda, spesso infelice, ma come ogni disciplina basata sui numeri, è anche tendenzialmente esatta, per quanto vada anche interpretata. Il preambolo era l’attacco utile per parlare di Violenza sulle Donne, proprio qui e proprio oggi, in questo 25 novembre 2020 così anomalo, con l’attenzione rubata alla data dal Covid-19, catalizzatore di spazi nei notiziari e nei dialoghi di noialtri.

E difatti, mentre restiamo focalizzati sul problema pandemico, la vita attorno a noi scorre e certe ricorrenze si trovano nella posizione scomoda di dover sgomitare per far parlare di sé. A darci la sveglia sul caso Violenza di Genere ci pensa, come suggerito dall’intro, un rapporto dell’Eures, dove numeri e percentuali comunicano in modo schietto e senza edulcorazioni, com’è la situazione in Italia.

Il Rapporto Eures 2019 su “Femminicidio e violenza di genere” parla chiaro. Il Belpaese ha registrato un femminicidio ogni tre giorni, con anche un vertiginoso aumento di casi di stalking e maltrattamenti. Si stima inoltre che dal 2000 ad oggi siano 3.230 le donne uccise in Italia, 2.355 in un contesto famigliare e di queste 1.564 ad opera del partner o dell’ex partner.

Il 2018, sempre secondo Eures, è stato un anno nero per l’altra metà del cielo, con 142 casi di femminicidio, il dato più alto fino ad oggi censito, almeno in termini relativi. A salire, come detto, anche le denunce per maltrattamenti in famiglia, ben 17.453, in crescita del 31,6% rispetto al 2014, ma anche quelle per stalking. In questo caso 14.871, con quasi l’80% di vittime femminili.

E visto che si parlava anche di Covid, altri dati poco edificanti arrivano da ActionAid, che ci dà contezza degli effetti collaterali del lockdown. Da marzo a giugno 2020 le chiamate al numero antiviolenza 1522 sono state più di 15mila, quasi il 120% in più rispetto alle stesse mensilità dell’anno precedente. Come mai?

La spiegazione è molto semplice. Diceva lo scrittore Ray Bradbury: “La follia è relativa. Dipende da chi è chiuso in quale gabbia”. Se sigilli tra le quattro mura un uomo violento, troverà sempre il modo di sfogare pazzia, rabbia e frustrazione. Da quanto dicono i numeri, troppo spesso sulla propria compagna, anche in presenza dei figli.

Violenza sulle donne: come ci supporta la giurisprudenza

25 novembre 2020

Se il quadro a tinte fosche dipinto dai diagrammi a barre è poco piacente, la più discorsiva giurisprudenza, dalla sua, sconta il peccato di essere stata manchevole per anni nei confronti della violenza sulle donne. Il termine femminicidio e il relativo reato hanno infatti nascita recente. O meglio, il lessema esiste dal 1990, da quando cioè Jane Caputi, docente di Studi Culturali Americani e la criminologa Diana E. H. Russell, lo hanno coniato e ne hanno dato una definizione precisa.

Ma affinché si possa intendere come vero e proprio illecito, con la parola scritta nero su bianco, bisogna attendere la seconda decade del 2000. In Italia si parla esplicitamente di femmincidio con il decreto legge n. 93 del 14 agosto 2013, poi convertito in Legge 15 ottobre 2013, n.119, dove si titola “Nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l’obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime”.

Nella famosa Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, per quanto precisa e completa nel parlare di prevenzione, protezione e sostegno delle vittime di violenza, ma anche di perseguimento dei colpevoli e sensibilizzazione sul tema, il termine femminicidio rientra stranamente nella categoria omissis. Dare un nome alle cose però non è importante, è proprio fondamentale.

Le perifrasi risultano dispersive e annacquano un po’ il discorso. E la cosa non fa piacere, visto che annacquando annacquando, si arriva velocemente ad un passato non troppo lontano e in un’Italia dall’anima patriarcale, dove una donna uccisa per delitto d’onore, come da art. 587 del Codice Penale, vedeva il proprio assassino omaggiato di pene attenuate. Una vita strappata, reclusione da 3 a 7 anni per il colpevole del reato. E anche tanta comprensione sociale per il reo, visto come vittima invece che carnefice.

La conquista dei giorni nostri? Femminicidio è un omicidio a tutti gli effetti, qualunque sia il movente, perciò come tale va trattato. Il legislatore sta anche via via correggendo il tiro e perfezionando una giurisprudenza spesso lacunosa. Ad esempio, con le aggravanti, come quella in caso di molestie, stalking e percosse ad una donna incinta.

Altra conquista, la Legge sul codice rosso, che di fatto fa passare maltrattamenti e violenze sessuali prima di altri reati, permettendo indagini più veloci ed una più veloce comunicazione al pubblico ministero. Non solo, perché la legge in questione obbliga anche le forze dell’ordine ad una formazione specifica per questi tipi di reati. Il che, la storia insegna, proprio non guasta.

Cercavi giustizia ma trovasti la Legge (fallace)

25 novembre 2020

Torniamo ai dati. Secondo l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE), solo una donna su tre che subisce abusi fisici o sessuali dal proprio partner si rivolge alle autorità. E Secondo un’indagine Istat, in Italia nel 2014 solo il 12,2% delle molestie da partner e il 6% di quelle da non partner sono state regolarmente denunciate. Sebbene i numeri siano in aumento, restano ancora minuti.

Ma perché per le donne è difficile parlare delle violenze subite? Per almeno due motivi. Il primo è psicologico, la sacrosanta pesantezza emotiva nel ripercorrere verbalmente attimi orribili, ma anche la paura del giudizio da parte dell’interlocutore. Il secondo è pratico, lo stigma sociale che può rendere la vita quotidiana impossibile, anche se si è vittime.

Facciamo un salto indietro nel tempo. Sul finire del 1500 balzò agli onori della cronaca il processo di tal Agostino Tassi, che violentò la 17enne Artemisia Gentileschi, sua discepola in ambito pittorico, nonché figlia di un suo collega artista. La Gentileschi fu sottoposta, oltre a svariate visite ginecologiche per accertare l’effettiva lacerazione dell’imene, ad un interrogatorio con la cosiddetta tortura della sibilla.

Un metodo perverso per estorcere quella che secondo gli inquirenti doveva essere la verità, strizzandole le falangi dei pollici chiuse in un cappio e tirate da cordicelle. Cambiamo scena, Italia 1973, un gruppo di esponenti di estrema destra chiude in un furgoncino bianco l’attrice e attivista Franca Rame, abusando fisicamente di lei e torturandola con bruciature di sigaretta sul corpo.

Le autorità, durante le procedure per determinare lo svolgersi dei fatti, insistono nel chiedere se in quello stupro, di fatto, la Rame non avesse anche provato piacere. Perché parlare della Gentileschi e della Rame adesso? Perché non solo furono vittime duplici di uomini orchi e del sistema che doveva tutelarle, ma si scontrarono anche con una legge fallace. Nel primo caso la condanna del Tassi non venne mai scontata, nel secondo il procedimento penale si chiuse con la prescrizione del reato.

Ancora oggi, nonostante un apparato giudiziario più evoluto nei confronti della violenza di genere, la paura di sentenze fantoccio, come la sensazione che il sentire comune ci sia avverso è forte. In questo barbaro mondo, in fondo in fondo, ancora qualcuno pensa che, se proprio non ce la siamo andata a cercare quella molestia, quantomeno non ci è dispiaciuta. E questo, purtroppo, rende afone molte donne, anche se sono lapalissianamente parte lesa.

Violenza psicologica, l’ultima forma di abuso

25 novembre 2020

Dire violenza è dire tutto e niente, perché la parola è un vero e proprio sistema di scatole cinesi che racchiudono al loro interno diverse sfaccettature del termine stesso. Nel caso della violenza sulle donne, è errato pensare solo a quella fisica, quella che si vede sulla pelle della vittima sotto forma di lividi e ferite. C’è una violenza ben più strisciante di cui parlare, quella psicologica.

L’abuso emotivo rientra in una fattispecie di molestia non ancora ben definita, sebbene abbia conseguenze potenti su colei che lo subisce. Nel 1998 il libro When Men Batter Women: New Insights Into Ending Abusive Relationship, scritto dai professori di psicologia dell’Università di Washington, Neil Jacobson e John Gottman, aprì un piccolo vaso di Pandora sull’argomento.

Il libro, tra le altre cose, si concentra su quello che in psicologia si definisce Gaslighter, termine derivato dal thriller Gaslight del 1944, in cui il marito cerca di portare la moglie alla pazzia manipolando la realtà e falsificando o negando prove concrete. Come giudicare regolare la luce invece affievolita e tremolante delle lampade a gas di casa. Da qui il nome dell’opera.

L’obiettivo del gaslighter è confondere e ottenere il controllo della mente della vittima, facendola dubitare di sé stessa e della propria comprensione della realtà, in modo che le sue percezioni siano intese dalla stessa come sbagliate o folli. In questa demolizione di personalità, il carnefice riesce facilmente a tenere stretto a sé l’oggetto della sua manipolazione.

Il “tu non vali niente”, o “sei fortunata che ci sia io, perché nessun altro ti vorrebbe”, “sei pazza” sono un rituale verbale che annichilisce e rende inerme e sottomessa l’abusata. I dati del fenomeno? Praticamente impossibile trovarli, perché ancora più che negli altri casi, la vessata non denuncia e addirittura dubita di essere davvero vittima di abuso.

Il Gaslighting non è l’unico, ma è certamente uno dei casi più estremi di violenza psicologica sulle donne. Esiste e mette in evidenza un nuovo tipo di orco, quello mentalista mistificatore. Solo uno dei tanti demoni dei giorni nostri, pronti a sminuire e a ridurre ai minimi termini colei che invece hanno giurato di amare e rispettare.

Anche in questo caso, alla società e a noi donne in primis, spetta il compito di supportare, comprendere e soprattutto sospendere i giudizi. Di strada da fare per spogliarci dei panni del censore e vestire quelli delle migliori custodi di noi stesse, ne abbiamo ancora tantissima. Malgrado le nostre sante guerre per l’emancipazione, come scriveva Alda Merini.

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ultimo aggiornamento: 25-11-2020