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Attualità

L’advertising di protesta diventa Subvertising e Brandalism in Gran Bretagna

Nasce il Brandalism, che utilizzando stessi mezzi e linguaggi dell’advertising lo contesta in stile street art e guerriglia marketing. Una riflessione su tali dinamiche

Segnaliamo un fenomeno che si sta affermando sempre più, specialmente in Gran Bretagna, madre delle mode e delle tendenze, ma anche delle prese di coscienza e dei movimenti autonomi. Si chiama Brandalism, ed è un movimento di protesta contro il comune advertising, a cui oppone il proprio Subvertising. Padri ispiratori sono il Dadaismo, il Situazionismo, e un’abbondante dose di Guerriglia Marketing e Street Art.

Brandalism è un neologismo con cui forse dovremo iniziare ad avere sempre più a che fare, parola composta da brand e vandalism. Com’è evidente si oppone a tutto ciò che sia brand, advertising, pubblicità, mass media traviati, e non per gli strumenti che in sé rappresentano, ma per il consumismo e i falsi bisogni che generano e con cui siamo martellati quotidianamente.

La cosa affascinante è che questo movimento utilizza gli stessi mezzi e le stesse vie di comunicazione di chi contestano. I risultati sono sorprendenti, perché con un solo colpo ci si appropria degli spazi altrui, nonché del pubblico che a quegli spazi fa solitamente riferimento, e al tempo stesso li si utilizza per contestare pericolose dinamiche che degenerano sempre più.

La pubblicità ha vissuto per un brevissimo periodo una fase di reale informazione, per cui effettivamente qualcuno si sarebbe potuto documentare sulle differenze tra prodotti simili, e sulle relative qualità o mancanze. Tutto il resto del tempo invece, si è galoppati sempre più verso la mera comunicazione, senza preoccuparsi di come davvero funzionasse, e comunicando cosa realmente.

Il collettivo di 25 artisti, provenienti da ben 8 paesi diversi, compresa l’Italia, contrasta tutto ciò: la creazione di falsi bisogni cui siamo costantemente sottoposti senza vie di scampo. Per far ciò viene adoperato un meccanismo perverso per cui non viene mostrato il prodotto o il servizio in sé, ma come saremmo noi se solo avessimo quel desiderabilissimo oggetto. Da qui parte la spiegazione di modelli e modelle ovunque, che creano un diffuso sentimento di frustrazione appagato solo dall’acquisto, quando nemmeno da quello -ma tanto meglio- si continua lo shopping.

E bada bene, quando si parla di modelli non ci si riferisce solo alle passerelle, ma letteralmente a tutte quelle famiglie felici, uomini di successo, donne in carriera, bambini vivaci il giusto, che incarnano stereotipi falsi, falsati, ma soprattutto e ancor peggio falsanti.

La creazione di modelli e stereotipi con il tempo ha generato un vero e proprio linguaggio. Ma la lingua non è di nessuno, così chi vuole la può utilizzare a proprio piacimento, e così sta avvenendo, non senza qualche modifica ovviamente. Ecco quindi claim e testimonial che mutano e rivelano i loro messaggi inquietanti: scritte che emulano il sangue, consumatori ritratti come zombie, annunci che non usano più linguaggi edulcorati, e scritte sullo stile di quelle che troviamo sui pacchetti di sigarette, che avvertono delle bugie delle pubblicità, almeno quanto quelle dei politici.

Arte, vandalismo, marketing, moda, contestazione: che cos’è il Brandalism? Ogni cosa e niente di tutto ciò. Di sicuro però il fenomeno è stimolante, e pone al centro della questione un problema -come accennato- non solo di linguaggio, ma subito dopo anche di design. Perché cos’altro è il design se non il linguaggio espresso in parole, immagini, oggetti, gesti, stereotipi e fruizioni? Trasformare il linguaggio muta i contenuti, ma la forma rimane sempre la stessa. Indagare queste dinamiche ci rende cittadini consapevoli, e magari anche designer responsabili.



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