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Le sculture di Bruno Catalano sono presenze palpabili ma allo stesso tempo eteree, che attraversano lo spazio pubblico dialogando con il tessuto urbano e con il paesaggio. Seppur piazzate su appositi sostegni e supporti, questi pezzi non sono sempre ubicati al centro di piazze o rotonde, ma abitano lo spazio quasi casualmente, come persone vere.
Nato nel 1960 nel sud della Francia, Catalano ha vissuto fino a 12 anni in Marocco e ha poi fatto il marinaio. Tornato in Francia a 30 anni ha cominciato a lavorare come scultore. Oggi vive a Marsiglia ed ha un’assistente eccezionale, la figlia Emilie.
Ogni scultura – prima della colatura del bronzo, viene modellata in argilla, e Catalano impiega dai 15 ai 20 giorni per realizzarla.
Ogni pezzo è portatore di un vuoto, una mancanza, una frammentazione non risolvibile. La sua riflessione si concentra tutta sul tema del viaggio, della migrazione. Nessun arrivo, nessuna partenza può dirsi realmente completa. Il viaggio dei migranti è sempre doloroso e Catalano lo ‘fotografa’ nel suo svolgersi. Corpi in tensione, internamente lacerati. Uno spazio bucato che lascia intravedere scorci e prospettive, strade percorribili e vicoli ciechi. Ma in fondo c’è un’armonia che resiste, un desiderio di bellezza e di scoperta che rappresenta forse l’intima natura dell’essere umano, il desiderio stesso del viaggio.
Anche nella distruzione che li plasma e li attraversa, questi corpi sono in grado non solo di restare in piedi, ma anche di camminare. Quale sia la loro direzione, quale il loro destino, non è dato saperlo.
Sfidando le leggi della fisica Catalano plasma il bronzo. I suoi viaggiatori hanno lo sguardo introspettivo e procedono con passo incerto. La decisa mancanza di volume invita lo spettatore alternativamente a perdersi nello sfondo o a completare il disegno. Ma il vuoto è proprio lì, all’altezza degli organi vitali e bisogna imparare a conviverci.
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