Movimento femminista e Islam sono incompatibili? E’ una domanda che sorge spontanea, magari senza essere espressa a a parole per non turbare il fragile equilibrio di ciò che potremmo definire il quieto convivere del “politicamente corretto”, ma che ciascuna donna, nel proprio intimo, si pone nel vedere e sentire, seppur indirettamente, certe immagini francamente insopportabili associate al mondo islamico.

Le donne velate non ci fanno più effetto, sappiamo che esiste una differenza sostanziale tra burka e il hijab, il fazzoletto che lascia il volto del tutto scoperto che non è obbligatorio neppure secondo il Corano.

Sappiamo che che in molti Paesi islamici le donne hanno accesso alla politica, e che possono ricoprire ruoli di dirigenza nelle aziende, diventare manager o docenti universitarie, che possono entrare nelle forze armate e che questo è considerato del tutto normale. E pur tuttavia, ci sono delle sacche, chiamiamole così, di totale “resistenza” all’emancipazione femminile, e non parliamo dei criminali jiahidisti o di quelli di Boko Haram, ma proprio di chi, facendosi forte della legge islamica usata come arma per schiacciare le donne verso ruoli di totale subalternità, impedisce di fatto alla parte femminile della popolazione di aspirare alla parità dei diritti.

Ci domandiamo: ma queste donne combattono per ottenere quanto spetta loro? Esistono femministe islamiche? La risposta è sì, naturalmente. Esiste un mondo femminile musulmano che proprio partendo dalla interpretazione del Corano stabilisce che non esiste nessuna incompatibilità tra parità di genere e raggiungimento dei diritti delle donne, e, appunto religione islamica.

Il movimento è recente (siamo intorno al 1990), ed ha preso avvio da un testo fondamentale redatto e pubblicato dalla teologa afro-americana (convertitasi alla religione musulmana) Amina Wadud, intitolato “Donna e Corano: il sacro testo riletto dalla prospettiva di una donna”. Una nuova esegesi del libro sacro per i musulmani è stato quindi il punto di partenza per una nuova presa di coscienza del ruolo femminile nella società, e della dignità femminile, da “rimodulare” per raggiungere un nuovo equilibrio di genere.

Movimenti femministi sono perciò germogliati in diverse nazioni islamiche, con caratteristiche proprie e peculiari, tra cui Iran, Turchia, Malesia. Ad esempio, proprio in Malesia è sorto un movimento molto attivo, chiamato “Sisters in Islam”, che cerca di combattere, con ogni strumento lecito, le profonde discriminazioni che la legge integralista islamica (sostenuta da alcuni partiti molto conservatori e da parte della popolazione), impone alle donne.

Altri movimenti femministi importanti sono sorti, sempre sulla scia delle reinterpretazione in chiave non misogina del Corano, in Egitto (grazie ad attiviste come Omaima Abou-Bakr), in Marocco, e nei Paesi occidentali, tra cui Italia e Francia, dove esistono consistenti comunità musulmane.

Si tratta di movimenti relativamente giovani rispetto a quelli occidentali, e molto diversi rispetto ai movimenti femministi degli anni sessanta e settanta fioriti tra Europa e America, che si basavano, per il riconoscimento della parità di genere, sulla Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, ma, appunto, sulla rilettura del ruolo femminile sempre all’interno di un contesto religioso.

Fatichiamo, forse, a capire questo tipo di impostazione non laica, ma probabilmente è anche il modo più giusto, più efficace, in nazioni fortemente permeate dall’afflato mistico-religioso, che ne ha plasmato la morfologia sociale, per ottenere finalmente l’agognata parità di genere e il riconoscimento dei diritti femminili. Con o senza velo.

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Foto| via Pinterest

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ultimo aggiornamento: 30-06-2014