E alfin giunse il fatidico 8 marzo. Un giorno per fare festa, dicono. Ma noi donne abbiamo davvero qualcosa da festeggiare? Fra mimose, auguri dei colleghi, serate nei locali con le amiche, a volte lasciamo indietro le cose vitali, prese dall’euforia di una giornata dedicata a noi. E perciò per 24h dimentichiamo, perdoniamo, tiriamo avanti, ci convinciamo che le cose brutte capitano solo nei telegiornali. Ma la realtà è meno festosa di come la vogliamo immaginare.

I dati parlano da soli. Solo in Italia nel 2012 sono state 124 le donne uccise da mariti violenti, compagni gelosi, uomini irrispettosi. E altri 47 sono i tentati femminicidi, dove le vittime sono sopravvissute ai loro carnefici. Ma c’è un altro dato che preoccupa: il sommerso. Si fa presto a dire femminicidio, ma di cosa parliamo? Il termine è talmente allo stato grezzo che non ci sono dizionari della lingua italiana in grado di accettarlo come lessema corrente. Men che meno le leggi, attualmente lacunose in materia. E così tali reati sono solo “banali omicidi” senza qualifica, beneficiati dalle attenuanti generiche che contrastano di netto con la giustizia.

È di pochi giorni fa la notizia della riapertura di un caso. Lei, Valentina, la vittima diciannovenne, era stata trovata morta nel luglio del 2010 impiccata ad una trave. Suicidio si disse allora. E oggi, a distanza di due anni, la verità viene a galla. A uccidere Valentina non fu un gesto insano, una trave e una corda, ma l’uomo che frequentava all’epoca. Sposato, violento, assassino. Quante Valentina ci sono ancora nei faldoni archiviati della Questura?

Ma ciò che fa tremare di più le vene dei polsi non sono i numeri tondi relativi alla violenza di genere, ma le percentuali. Il 25% dei casi di femminicidio riguarda donne che volevano porre fine a una relazione affettiva o lo avevano fatto da poco e nel 63% degli omicidi il delitto si è consumato fra le mura domestiche. Come si fa a dare allora un nome al nemico? Come si fa a distinguere il porto sicuro dalla tana del serpente?

E se parlassimo di figli, come cambia la storia? Dagli impietosi sondaggi stilati da SWG risulta che la maggior parte delle violenze sulle donne avvengono nell’84% dei casi in modo continuativo, all’interno di una famiglia. I bambini assistono spesso a litigi, atti violenti dei capofamiglia nei confronti della moglie/compagna e crescono con un senso di impotenza, rabbia e paura. Ma c’è di più, la storia non si chiude con la chiusura del rapporto molesto, ma va avanti, sfociando il più delle volte in omicidio. Femminicidio.

E ci sarebbe anche altro da dire. Ad esempio citando la situazione della prostituzione femminile italiana, di cui non si parla spesso ma che è una piaga sociale avvilente. In questo caso i dati sono anche frammentari, mal fruibili e poco aggiornati. La fonte più recente e affidabile è la Cooperativa Parsec, organizzazione specializzata nella ricerca su tematiche sociali (in particolare immigrazione e prostituzione).

Dai dati del 2005 l’ente ha stimato un numero di prostitute straniere in Italia (principalmente dell’Est e spesso minorenni) che oscilla fra le 30000 e le 38000, mentre le italiane sarebbero fra le 7000 e le 8000. Anche in questo caso i dati numerici dicono meno di quanto dovrebbero. Se analizziamo più approfonditamente, c’è infatti un particolare che ci fa saltare indietro di un cinquantennio: l’80% di queste donne lavora al chiuso e non in strada.

Era il 1958 quando la senatrice Lina Merlin si fece prima firmataria della legge che porta ancora oggi il suo nome e che sanciva la chiusura delle case di tolleranza. Lo spirito di tale provvedimento era di salvaguardare le donne dalla compravendita, dallo sfruttamento sessuale e dal lenocinio. Termine quasi desueto che indica la costrizione di gruppi di persone (in questo caso di genere femminile) a fornire prestazioni sotto minaccia fisica e usura.

E di certo la Merlin si sarebbe battuta oggi con ancor più forza se fosse stata a conoscenza del fatto che tali azioni coercitive sono spesso esercitate a danno di ragazzine minorenni, quando non anche bambine. Il tutto all’interno di mura ben protette da uomini che ne sfruttano la giovinezza, che le minacciano di violenza e sfregi fisici o che le soggiogano con le droghe, da cui le ragazze iniziano a dipendere. Con la conseguenza che diventano letteralmente schiave dei loro carcerieri.

E allora cosa abbiamo noi da festeggiare quando i diritti delle donne vengono lesi ogni giorno in casa nostra, nel nostro paese e nel nostro mondo? In alcune zone dell’Africa le bambine continuano a subire mutilazioni genitali, in America Latina diventano divertimento dei soldati impiegati nei conflitti territoriali, nei paesi dell’Estremo Oriente la vita e la libertà delle donne dipendono dai mariti e dai padri. E nei paesi occidentali la lotta per universalizzare i diritti fondamentali è ancora troppo lenta.

L’augurio sincero di Pinkblog per le sue lettrici è di godere di quest’8 marzo come di un giorno per riflettere, per mettere a fuoco quanto meravigliosa e forte sia la nostra natura e quanto troppo spesso sia ingiustamente messa alla berlina, sottovalutata e annichilita. Pinkblog e le sue blogger non sono contro la festa della donna: sappiamo essere leggere all’occorrenza e persino un po’ frivole, ma quando serve usiamo la penna per dare voce e spazio alle cose che realmente contano.

Restiamo in attesa che arrivi quell’8 marzo che davvero ci permetta di festeggiare con il cuore più leggero. E forse per allora, la festa della donna non servirà neanche più. Un abbraccio a tutte.

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ultimo aggiornamento: 08-03-2013