Sembra aver scoperchiato un vaso di Pandora il caso delle baby prostitute romane che la mattina frequentavano il liceo come delle brave studentesse, e il pomeriggio si vendevano in un appartamento di lusso ai Parioli. Per abiti griffati, borse, per cellulari. Di propria iniziativa o spinte dalla famiglia. 14 e 15 anni di inebriante freschezza per uomini disposti a spendere. 14 e 15 anni dati via così.

Di rincalzo è arrivata la vibrante denuncia del vescovo dell’Aquila, che ha raccontato di ragazzine pronte a prostituirsi per una ricarica telefonica, e, tanto per gradire, alle due città del centro Italia ha risposto la capitale del nord, Milano, con lo sconcertante caso delle “ragazze doccia“.

Si tratta di adolescenti che nei bagni delle loro scuole avevano improvvisato un vero e proprio mini bordello (il termine non può che essere quello), a beneficio dei coetanei, con tanto di tariffario (per lo più oggetti, beni voluttuari) adeguato al tipo di prestazione. Ci sono diversi modi per leggere questi allarmanti fatti di cronaca, modi che inevitabilmente riflettono il nostro senso etico, la nostra morale, la nostra onestà mentale, la nostra obiettività, la nostra capacità di interpretare i mutamenti della società attuale.

Molti reagiscono allontanando la cosa da sé, ovvero, innescando una sorta di meccanismo di difesa. L’atteggiamento, in questi casi, può essere duplice: possiamo appiattire il tutto come se fosse un semplice fenomeno legato alla crisi (economica e di valori), che in alcune sacche degradate della società si manifesta in modo accentuato. Ergo, queste persone dicono: non ci riguarda. Riguarda altri, gente moralmente deprecabile.

Oppure, possiamo assumere un atteggiamento cinico e generalista e affermare qualcosa del tipo: la prostituzione è sempre esistita, le ragazzine hanno sempre usato il loro corpo per ottenere qualcosa, in modo più o meno elegante, più o meno consapevole, e le famiglie ci hanno “marciato”. E anche questa interpretazione denota una gran voglia di tenersi alla larga da una qualunque, più approfondita analisi.

Ci sono, poi, i “buonisti”, quelli che incolpano la società (come se fosse un’entità minacciosa ed “esterna” a ciascuno di noi) e affermano: queste povere ragazze sono vittime di adulti senza scrupoli, che le manipolano e e sfruttano. E’ un modo un po’ facilone e paternalista per lavarsi la coscienza: ci sono le vittime da una parte e i carnefici dall’altra. Se si perseguono i secondi e si proteggono le prime inserendole in un ambiente “sano”, il problema si risolve.

Infine ci sono anche quelli (gli “ideologici”) che affermano che la colpa è del consumismo sfrenato che spinge a puntare tutto sull’apparenza e sulle cose futili, in cui 20 anni di edonismo berlusconiano (con tutto il suo corollario da “fine impero” fatto di olgettine e di Bunga bunga) hanno lasciato il segno. Marcio, naturalmente. E poi… ci siamo noi. Quelli che non riescono a pensare “sono gli altri, noi no”. Quelli che tremano al vedere figlie, sorelline, nipoti che passano le giornate a postare proprie foto provocanti su Facebook.

Quelli che tremano ancor di più quando vedono che le mamme le assecondano, e magari, ci si mettono pure loro, a postare proprie foto conturbanti su Facebook. Quelli che ancora non si capacitano che sia diventato più importante vedersi vivere attraverso un social network che vivere per davvero. Quelli che ogni tanto sono colti da una sensazione che li tramortisce.

Che dietro tutto questo fenomeno – le baby squillo di buona famiglia, la precocità sessuale, le madri che si improvvisano maitresse e gli uomini che pagano lolite di quartiere – non ci sia nulla. Nulla nel senso di vuoto. Un vuoto talmente spaventoso, che deve necessariamente essere riempito con emozioni di bassa lega e stantio gusto del proibito, ma soprattutto con cose. Abiti firmati, accessori alla moda, gadget tecnologici. Cose che costano. Emozioni che si comprano. E allora ogni mezzo per procurarsele diventa lecito.

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ultimo aggiornamento: 08-11-2013