Il catalogo storico della Ferrari è ricco di auto da corsa che lasciano a bocca aperta. Noi ne abbiamo scelte 3 fra le più belle da collezionare (giusto per iniziare), ma è un esercizio teorico, perché ciascuna di essere costa cifre stratosferiche, fuori dalla portata dei comuni mortali.

Anche i miliardari, però, non possono pensare di assicurarsene facilmente un esemplare, perché i pochi proprietari difficilmente si separano da simili capolavori, vivendoli con passione in un quadro finanziario di alto livello.

Resta la possibilità di sognarli e su questo sentiero si ritrovano fiumi di persone, che sperano prima o poi di riuscire ad accarezzare l’idea di trovarsene almeno una in garage. Anche vincendo al Superenalotto, però, non sarà facile. Seguiteci nel nostro viaggio alla loro scoperta.

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Ferrari 330 P4

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La Ferrari 330 P4 è un sogno di lusso milionario, destinato a pochi eletti con patrimoni da favola. Quasi impossibile trovare un esemplare in vendita, perché nessuno se ne vuole separare: un fatto ovvio per un gioiello da collezionismo senza eguali. Difficile ipotizzare un valore, ma le sue quotazioni sono al top. Roba da sultani e paperoni di Forbes.

Nella sua meccanica di alta classe si condensa la migliore tradizione del mito di Maranello. E’ una vettura robusta e prestante, ma pure scultorea e bilanciata. Appartiene alla stirpe delle “rosse” più affascinanti di tutti i tempi. Una superba opera d’arte, con una suggestiva armonia di forme. In tanti credono che sia la più bella Sport del firmamento automobilistico.

La linea della sua carrozzeria lascia estasiati, immersi nell’incanto delle magiche e sinuose curve che, nel loro morbido dipanarsi, inebriano i sensi degli appassionati. La 330 P4 è un’emozione, una confluenza di velocità, di tecniche, di stile e di melodie, che si fondono in un’eccitante miscela, la cui composizione effonde le rime di una poesia celestiale.

Il muso, basso e affilato, trasmette la grinta dei suoi cromosomi, mentre la coda, suadente e compatta, esprime il romanticismo della sua forza dinamica. Anche il cofano, incernierato sul tetto, estende i suoi muscoli con grazia divina. E’ un capolavoro assoluto, perfetto e proporzionato nei sensuali volumi, frutto di un lessico di aulica specie. Il sublime equilibrio che ne definisce l’azione consente a questa “rossa” di aggiudicarsi il combattuto Mondiale Marche del 1967, contro le agguerrite rivali a stelle e strisce.

Esteticamente simile alla P3 (dalla quale deriva), la 330 P4 vanta un telaio irrobustito e affinato. Si tratta di una struttura in tubi di acciaio, con elementi scatolati, che ospita il leggero involucro in allumino, forgiato da Piero Drogo. Valido l’assetto, garantito dalle sospensioni a quadrilateri deformabili; ottima l’integrità strutturale, che regala una marcia solida ed energica. La nuova creatura viene prodotta in quattro esemplari, uno dei quali in configurazione spider. Pesa 792 kg e gode della spinta di un affidabile 12 cilindri di 4 litri, curato da Franco Rocchi, che sviluppa 450 Cv a 8000 giri al minuto.

Questo propulsore, con funzione portante, segna l’esordio delle tre valvole per cilindro e di altri significativi affinamenti, nati dall’esperienza acquisita in Formula 1. Grazie al know-how tecnico l’iniezione indiretta Lucas ottiene la giusta valorizzazione. I condotti di aspirazione vengono posti al centro della V che separa le due bancate. Nuova la trasmissione, interamente costruita dalla factory emiliana. Il cambio, con frizione a dischi multipli, sfoggia ridotte dimensioni di ingombro e maggiore resistenza agli alti regimi di rotazione.

Gli interventi colgono nel segno e l’auto risulta molto più incisiva della progenitrice (che viene convertita allo stile dell’erede, con la sigla 412 P). Grazie ad essa si apre un nuovo e intenso capitolo nella lotta col gigante Ford, dopo che la brusca interruzione delle trattative per la vendita della Casa di Maranello, ormai in dirittura d’arrivo, aveva spinto il costruttore americano a lanciare il guanto si sfida, con l’evidente obiettivo di umiliare i bolidi italiani nel loro terreno di elezione: le corse!

L’azienda di Detroit vince nel 1966, ma è costretta ad abdicare alle “rosse” nella stagione successiva, grazie proprio alla P4, che nasce dal desiderio del Drake di rifarsi dello smacco, digerito amaramente. Il Commendatore esige il successo e convoca i suoi, per caricarli all’impresa. La chiamata alle armi funziona e i risultati non tardano ad arrivare.

Alla 24 Ore di Daytona del ‘67 è tripletta: vincono Bandini e Amon, seguiti da Parkes e Scarfiotti, entrambi sulla freccia scarlatta. Le due P4 e una 412 P, giunta terza, tagliano in formazione il traguardo. La scelta dell’allineamento sulla linea finale, voluta da Franco Lini, si rivela azzeccata, colpendo l’immaginario collettivo. Le foto delle “rosse” in parata conquistano le prime pagine di tutti i giornali, entrando nell’enciclopedia storica dell’automobilismo. Viene naturale leggere nelle modalità di arrivo un’efficace risposta alla vittoriosa sfilata di 3 Ford MKII alla maratona della Sarthe dell’anno precedente. Il primo conto di Ferrari è chiuso.

Nel prosieguo di stagione la 330 P4 ottiene la doppietta anche alla 1000 km di Monza, con Bandini e Amon davanti a Parkes e Scarfiotti. Alla Targa Florio, dinanzi al suo pubblico, Vaccarella è costretto al ritiro a causa di un lieve incidente a ridosso di Collesano. Senza questo imprevisto la classifica della gara madonita sarebbe stata diversa. Il “Preside Volante”, grande protagonista delle fasi iniziali della prova di casa, appare visibilmente contrariato. Al via della successiva 24 Ore di Le Mans ci sono otto Ferrari (metà delle quali P4) contro una sfilza di Ford. E’ subito lotta serrata, nonostante i 3 litri di handicap pagati dalle “rosse”. L’andatura è furibonda.

Vince la vettura statunitense, che sul traguardo precede i due bolidi del “cavallino rampante” condotti da Parkes-Scarfiotti e Mairesse-“Beurlys”. Per il Commendatore è grande delusione. L’alloro iridato è comunque destinato a rimanere in Europa. Alla 500 Miglia di Brands Hatch il ritmo brillante, tenuto nelle fasi conclusive, consente alla Sport emiliana di Chris Amon e Jackie Stewart di conseguire il secondo posto, alle spalle della enorme e folkloristica Chaparral. Molto più indietro le Porsche, che avevano vanamente sperato in una gara bagnata.

Per la tredicesima volta il Trofeo Costruttori finisce nelle mani della Casa di Maranello. Il conto col gigante Ford è definitivamente chiuso! Il merito va ad un’auto leggendaria, entrata nel cuore degli appassionati, più di qualsiasi altra creatura da corsa. Le nuove restrizioni regolamentari, che fissano per i prototipi una cilindrata massima di tre litri, impediranno la partecipazione della P4 al Campionato del 1968 che, per protesta, Ferrari non disputerà.

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Ferrari Dino 206 SP

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La Ferrari Dino 206 Sp è uno dei gioielli automobilistici più cari per chi ama il collezionismo di qualità. I volumi della carrozzeria di questo capolavoro ricordano quelli della 330 P3. Quanto basta per ritagliargli un posto d’onore nel cuore del popolo ferrarista. Anch’essa realizzata dalla Carrozzeria Drogo, vanta una linea delicata e coinvolgente, che la rende estremamente appetibile. Raccolta e tondeggiante, esprime un romanticismo stilistico al quale non è difficile abbandonarsi. Il delizioso frontale, schiacciato al suolo, assicura la giusta dose di deportanza.

Un grande parabrezza arcuato protegge l’abitacolo dai vortici d’aria e ne slancia il profilo. Alle spalle del pilota spicca un roll-bar collegato da due pinne al cofano motore, per un risultato armonico di sublime eccellenza artistica. La coda, morbida e ondulata, incanta la vista e garantisce un buon livello di carico aerodinamico. Con le sue proporzioni da top model la 206 Sp sembra pronta ad aggredire l’asfalto dei campi di gara. Sarà l’ultimo prototipo da corsa del “cavallino rampante” a fare tesoro del motore V6; poi si passerà ad altri frazionamenti.

A causa delle agitazioni sindacali del 1966 la vettura viene realizzata in soli 16 esemplari (tre dei quali in versione berlinetta), contro gli almeno 50 desiderati dal Drake. Questo la costringe a confrontarsi con i più performanti prototipi. Nella sua breve carriera “ufficiale” non riuscirà a toccare le vette della gloria, ma saprà conquistare l’amore dei tifosi. L’impostazione tecnica ricalca quella della Dino 206 P, solo parzialmente aggiornata.

Il motore 6 cilindri di due litri, lievemente ritoccato nell’alimentazione e con diversa morfologia delle camere di combustione (che profumano di Formula Uno), registra un tangibile incremento di potenza. Eroga 218 Cv a ben 9000 giri al minuto: un valore più che sufficiente a spingere con grinta di matrice corsaiola i 580 kg della compatta creatura. Grazie agli interventi successivi, la riserva energetica del piccolo blocco in lega leggera crescerà fino a lambire i 240 Cv.

L’impresa è resa possibile dall’adozione di un più elevato numero di valvole e dall’esordio dell’iniezione meccanica Lucas, che rimpiazza i classici carburatori. Il telaio tubolare in acciaio, rinforzato con pannelli d’alluminio rivettati, garantisce elevate prestazioni strutturali, per un’ottimale precisione di guida. Le premesse sono di grande valore, ma la carriera della 206 Sp sarà segnata da infelici episodi che ne compromettono il curriculum, anche nelle gare in salita, dove la “rossa” dimostra di essere affilata come un coltello da cucina.

Il debutto in società del modello “preserie” avviene alla 12 Ore di Sebring del marzo 1966; condotta da Bandini e Scarfiotti, consegue un sofferto quinto posto. Banali e fastidiosi inconvenienti, come il malfunzionamento dei tergicristalli, caratterizzeranno la partecipazio-ne alle 1000 km di Monza e Targa Florio, disputate sotto una pioggia battente. Nonostante le disavventure, l’auto guidata da Guichet e Baghetti consegue in Sicilia un dignitoso secondo posto.

Forte della sua naturale predisposizione, la 206 Sp si appropria di un ritmo valido per concorrere al successo nel Campionato della Montagna. Sulle tortuose strade che si arrampicano alle pendici dei colli, fra mille tornanti abbracciati dal cielo, l’agile Dino guidata dall’esperto Scarfiotti emerge, infatti, per le spiccate attitudini. Ma, per il gioco del destino, a fine stagione dovrà compiacersi della seconda piazza, alle spalle della Porsche di Gerhard Mitter.

In condizioni ideali avrebbe potuto agguantare il titolo, lasciando una traccia più luminosa nel firmamento agonistico. I risultati di rilievo non sono comunque mancati. Nella carriera di questa piccola “rossa” spicca, fra gli altri, l’incredibile secondo posto ottenuto, dietro una grossa Chaparral, alla 1000 chilometri del Nurburgring, con Scarfiotti e Bandini alla guida. Al terzo posto la vettura gemella di Rodrìguez e Ginter.

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Ferrari 312 PB

Ferrari 312PB in action

E’ una vettura eclettica e versatile, spinta da un affidabile propulsore di Formula Uno (quello della 312 B2) opportunamente adattato. Si può dire che sotto l’abito si nasconda una monoposto. Anche il cambio e le sospensioni sono mutuate dai bolidi a ruote scoperte. Sfrutta le conoscenze tecniche ed aerodinamiche acquisite coi prototipi precedenti, in particolare con la serie 512.

Il suo vero nome è 312 P, ma l’esigenza di distinguerla dal modello nato nel 1969 e carat-terizzato dalla stessa denominazione, spinge alcuni cronisti ad aggiungere la lettera B di boxer alla sigla, così impropriamente storpiata in P/B. Ostenta una linea rabbiosa ed ecci-tante, densa di forte vitalità agonistica. Sembra la lama di un rasoio ed è una bella Sport. I tratti spigolosi enfatizzano la sua grinta.

E’ un’auto rigorosa e ben curata nella sua semplicità funzionale, che ne rappresenta uno dei tanti pregi. Il motore centrale da 3 litri (a V di 180°) esprime un’ottima coppia motrice. Sviluppa la straordinaria potenza di 450 Cv a ben 11.200 giri al minuto. Ha un baricentro basso e vantaggioso e questa sua essenza spinge Forghieri ad impiegarlo sui campi di gara.

La 312 diffonde una straordinaria musicalità meccanica, frutto della deliziosa orchestra a 12 cilindri contrapposti che ne anima l’azione. Il primo prototipo è vestito in alluminio, ma ben presto la semimonoscocca in acciaio ospiterà una carrozzeria in poliestere. Fra i punti di forza dello chassis spicca l’elevata robustezza strutturale. La forsennata corsa di questo prototipo è rallentata da vigorosi dischi autoventilanti, capaci di svolgere egregiamente il loro lavoro.

I quattro serbatoi, che accolgono 120 litri di carburante, bilanciano al meglio le masse della vettura, ma “abbracciano” pericolosamente l’abitacolo, con grave pregiudizio per la sicurezza attiva e passiva. Il più capiente è disposto sul lato sinistro, per compensare il peso del pilota. La nuova nata, che vanta delle dimensioni compatte, gode di un peso ridotto, grazie al lavoro svolto per il suo contenimento. Verrà prodotta in 14 esemplari.

La 312 P aderisce alle nuove disposizioni della Commissione Internazionale che, a partire dal 1972, vuole come protagoniste del Campionato Marche le sole Sport da 3 litri. E’ un’auto maneggevole e facile da guidare, che vanta una fantastica tenuta di strada. Il suo debutto avviene il 10 gennaio del 1971 alla 1000 km di Buenos Aires, dove coglie un ottimo secondo posto in qualifica, ad appena 4 centesimi dalle grosse Porsche 917, che in gara sfida senza timori reverenziali. Un dramma è però alle porte. Nel tentativo di scavalcare la 512 M di Parkes, Giunti colpisce la Matra di Jean-Pierre Beltoise, ferma di traverso in mezzo alla pista (a secco di benzina). Lo scontro è violentissimo, la vettura prende fuoco e il povero Ignazio lascia questo mondo.

Varie magagne segneranno la sua tabella di marcia nell’arco dell’anno. La creatura del “cavallino rampante” è costretta al ritiro, spesso quando conduce la gara, magari dopo aver dominato anche le prove. Nonostante le avversità, riesce ad emergere nei confronti della Sport di Stoccarda in quei contesti dove prevalgono tenuta e maneggevolezza. La tribolata stagione si chiude con una doppietta alla 9 Ore di Kyalami, con Regazzoni e Redman davanti a Ickx e Andretti. E’ il preludio di una nuova fase all’insegna della gloria. La rivincita arriva infatti nel 1972, quando le 312 faranno incetta di successi.

La “rossa” non accusa più i problemi di gioventù, ed è un’arma collaudata e robusta. Oltretutto migliorata nel telaio e nell’aerodinamica. In gara non ci sono più i prototipi da 5 litri, esclusi dal nuovo capitolato sportivo. Il bolide di Maranello, affidato a grandi assi del volante, fa suo un incredibile en-plein, conquistando tutte le gare della serie iridata. Dodici vittorie su 12 prove disputate, 10 delle quali valide per il Mondiale. Spesso sono splendide doppiette. Ancora più vistoso il dominio alla 1000 Km di Zeltweg, in Austria, dove l’auto riesce ad occupare le prime quattro posizioni nella classifica finale. Per la Ferrari è la conquista dell’ennesimo Trofeo Costruttori, il tredicesimo della ricca carriera.

La “barchetta” emiliana continuerà a correre nel 1973, cogliendo i primi due posti alle maratone di Monza e del Nürburgring (controllare questi due successi). Arriva il momento del congedo ufficiale della Casa di Maranello dalle gare di durata, che tanto lustro hanno regalato alla sua nobile storia!

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ultimo aggiornamento: 05-06-2014