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25 novembre 2015: lettera alle future generazioni sulla violenza sulle donne

Sul 25 novembre e sul suo significato probabilmente abbiamo già scritto tutto. Eppure forse un tassello manca. Parlare di violenza sulle donne alle future generazioni

Violenza sulle donne

L’idea proposta non è nuova, lo ammetto, forse neanche brillante. Eppure questo 25 novembre 2015 è arrivato e il mondo ancora una volta si è svegliato dal torpore, ricordandosi che c’è una ricorrenza da rispettare e dei ceri votivi da accendere, celebrando come meglio sa fare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

E allora via di statistiche, di mix and match di casi risolti e irrisolti con uomini colpevoli ma facilmente assolti, di iniziative, di fiaccolate silenziose, di nomi da ricordare, di lapidi da spolverare. Così, per ventiquattro ore saremo in grado di rattristarci e autocommiserarci, pagare dazio con la nostra contrizione per i tanti casi di violenza di genere che hanno visto un tragico epilogo. E poi domani ancora buio.

Da qui nasce l’idea poco originale della lettera alle generazioni future su questo tema. L’esigenza è scaturita dalla voglia di mettere il cuore sulla brace senza occupare un intero post, come mio solito, con dati Istat o Eures e legislazione ancora lacunosa, spiegando invece con parole semplici e sentite ciò che una donna di trent’anni pensa a proposito degli uomini che uccidono.

Mario Capanna usò la forma epistolare per il suo celebre manifesto sessantottino che non necessita di presentazioni e che ancora oggi affascina migliaia di teenager dall’animo inquieto. Lui indirizzò la lettera a suo figlio, spiegando ad un adolescente quello che voleva dire vivere nell’Italia pre-anni di piombo, con l’urlo della cultura libera e per tutti nelle orecchie e la voglia di cambiare il mondo nel petto. O quantomeno l’istruzione pubblica.

Per quanto mi riguarda non ho una figlia a cui parlare e soprattutto non sono Mario Capanna (anche se ne condivido le iniziali), ma mi servirò ugualmente della lettera per spiegare cosa prova chi, come me, ha visto nascere la parola femminicidio e spera anche un giorno di vederla cadere in disuso (possibilmente prima di essere diventata vecchia e borghese), per consegnare alle generazioni future e a quella figlia che magari verrà, un mondo in cui gli uomini hanno rispetto per l’altra metà del cielo.

[img src=”https://media.pinkblog.it/8/834/violenza-donne-3.jpg” alt=”Violenza sulle donne” align=”center” size=”large” id=”319222″]

Care donne del domani,
immaginate questa mia lettera come un vecchio cimelio nascosto in una capsula del tempo. Quello che c’è scritto appartiene al mio presente, quello che leggerete sono i racconti di quello che accade intorno a me nel 2015 e che spero non accada più quando voi sarete nate. Ho pensato a lungo come iniziare questa epistola dedicata al tema “violenza sulle donne” e mi sono convinta che il modo migliore fosse prenderla più alla lontana, parlandovi di un caso di cronaca internazionale che in questi giorni sta scuotendo gli animi dell’intero pianeta e che probabilmente voi leggerete sui libri di scuola. Parlo degli attentati di Parigi ad opera di un gruppo terrorista islamico (l’Isis), che hanno visto scendere in campo la prima kamikaze donna su suolo europeo. Lei si chiamava Hasna Aitboulahcen, aveva 26 anni e il suo nome sarà presto scordato a favore del suo soprannome “l’assassina di Saint Denis”.

Eppure Hasna, che il mondo odia senza riserve, prima di essere carnefice è una vittima, a detta della sua migliore amica “una donna fragile e facilmente manipolabile”, che si è fatta plagiare dalle idee di Abdelhamid Abaaoud, il burattinaio dietro le stragi di Parigi nonché cugino della ragazza. Quest’uomo ha avuto il potere di condizionare la mente di Hasna, una sua parente stretta, portandola ad immolarsi letteralmente per la sua causa, prendendole la vita e il futuro.

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Ora, il terrorismo è un caso estremo, ma purtroppo il condizionamento mentale e fisico da parte di un uomo verso una donna che gli è legata, è un caso meno raro di quanto non si possa pensare. Ad oggi sappiamo infatti che gli uomini che torturano, stuprano, minacciano, picchiano e uccidono la propria compagna, madre, sorella o anche figlia sono tanti, troppi. Secondo UN Women, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa del miglioramento della condizione femminile nel mondo, il 35% della popolazione femminile mondiale ha subito almeno una volta nella vita una qualche forma di violenza e nel 70% dei casi si stima che la molestia sia provenuta da un partner o da un uomo intimo.

Probabilmente anche nel vostro tempo, care generazioni future, reggerà la favola del principe azzurro che bussa alla porta della sua amata e la fa diventare la sua regina, ma le madri di oggi sono sempre più restie a raccontare questa storia alle proprie figlie. Nel 2015 c’è un clima di diffidenza nei confronti del capofamiglia, chiunque esso sia, perché i tempi sono cupi e gli uomini sono sempre meno rispettosi. Qualche sociologo va dicendo che è solo un sintomo della crisi economica, colpevole di destabilizzare il maschio alfa e di renderlo così più selvatico. Poi c’è anche la teoria del complotto messa in campo da alcuni religiosi in abito talare, secondo cui le donne sono artefici della loro sorte, portando gli uomini alla follia con un mix di emancipazione lavorativa, gonne corte e vita sociale attiva.

Capiamoci, gli orchi ci sono sempre stati, ma le contadine e molte casalinghe della metà del secolo scorso ancora non avevano gli strumenti per comprendere che non era giusto buscare botte e umiliazioni dagli uomini di casa. Perciò a testa bassa incassavano pugni, calci, violenze sessuali e psicologiche e tiravano avanti, sperando di essere così brave il giorno dopo da non meritare ancora simili punizioni. Oggi la donna pagherebbe la colpa di essersi evoluta, rimboccata le maniche, andata a lavorare fuori dal proprio orto ricevendo un salario, di aver studiato e mandato a scuola anche le sue figlie, conscia che l’unico modo per non soccombere più fosse la conoscenza, un pane fragrante che è anche in grado di alimentare la giusta ribellione e il conseguente cambiamento.

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E ai benpensanti questa cosa non è scesa liscia liscia, sin da quando hanno iniziato a vedere le signore bene uscire di casa per chiedere il diritto di voto e ancora di meno quando, una volta ottenuto, lo hanno utilizzato per chiedere allo Stato quello di divorziare e di abortire. Oggi che la mia generazione è pronta a scendere in campo per pretendere di vedere riconosciuta una certa parità di genere, ecco che invece arriva la stoccata che mancava: Dio ci punisce in differita per non aver onorato il sacro vincolo del matrimonio e pure per aver inventato la pillola abortiva. Almeno questo è quanto ci dicono dal pulpito domenicale molti di quei sacerdoti che dovrebbero predicare il perdono e invece parlano di karma: “donna, tu te la sei proprio cercata!”.

A proposito di karma mi viene in mente una storia che mi raccontò mia madre e che ancora oggi mi dà da pensare. Mia mamma è un ex educatore penitenziario, figura professionale nata in Italia verso la metà degli anni 70 (quando insomma qualcuno si rese conto che il carcere non poteva essere punitivo sic et simpliciter ma anche e soprattutto rieducativo) e ricorda perfettamente un caso che le passò fra le mani all’inizio della sua carriera: una donna, moglie di un boscaiolo, che dopo anni di feroci aggressioni fisiche, ossa rotte, insulti e minacce di morte da parte del marito, ebbe un moto di amor proprio e decise di ammazzarlo con l’accetta. La signora in questione, condannata all’ergastolo e poi graziata con un piccolo sconto di pena per buona condotta, ho sempre fatto fatica a collocarla in una fra le classiche categorie “vittima” e “carnefice”.

E lo stesso problema ce l’ho per il marito orco, perito di karma negativo, su cui pende una domanda fondamentale: se le parti fossero state invertite, l’uxoricida avrebbe avuto lo stesso trattamento da parte della legge o la difesa avrebbe tirato fuori dal cilindro qualche attenuante generica per un’immediata riduzione di pena? Sarebbe bello poter dire che nulla sarebbe cambiato, eppure di scivoloni in campo giudiziario, proprio sul tema della violenza sulle donne, sono pieni gli annali. Tanto più che quando è un uomo che uccide una donna raramente lo fa perché si trova lui stesso in pericolo di vita o perché da anni subisce percosse e mutilazioni da parte della moglie.

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Fortunatamente, care generazioni future, qualche piccolo traguardo in campo legale lo si è raggiunto. Ora il crimine in questione si chiama femminicidio e non è più concesso farlo cadere nella lista dei delitti d’onore o degli omicidi generici. La strada però è ancora lunga e in salita e molti sono gli ostacoli che ci tengono lontane dalla vetta. Il più feroce come sempre è la gente, quella che pensa che un cambiamento non sia necessario, quella che non vede il problema e quella che, come già scritto, pensa che il karma del taglione magari non sia moralmente giusto ma sia sempre e comunque inevitabile. In fondo è un po’ da quando Eva ha mangiato la mela che la sofferenza tormenta anche l’incolpevole Adamo, perciò la nostra progenitrice doveva aspettarsi che prima o poi il consorte gliel’avrebbe fatta pagare. E la punizione è diventato un veleno a vita.

Per nostra fortuna, sebbene il genere femminile sia ancora debole nei confronti di tanta tossicità, ha comunque imparato a proteggersi e a guarirsi (non ultimo grazie anche alla nascita di gruppi d’ascolto e sostegno fatti di donne per le donne). Il nostro cuore sa essere grande per amare e anche per perdonare perciò, care donne del domani, custodite gelosamente questa caratteristica che ci tramandiamo dalla notte dei tempi, ma senza dimenticare di volerci bene e di spiegare le nostre ali le une sulle altre quando serve. A te figlia mia, se mai sarai, auguro di nascere in un mondo nuovo, in cui tu non debba aver paura di innamorarti né di sentirti fragile fra le braccia di un uomo, uno che magari ti spezzerà il cuore ma mai potrà nuocere alla tua capacità di fidarti degli altri.

Con affetto, Ran.



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